Provare un senso di colpa, mentre si accudisce qualcuno ammalato di Alzheimer o di un’altra demenza, è un’esperienza comune a tutti i caregiver.

Proviamo un senso di colpa per i motivi più svariati:

  • Se in preda alla stanchezza e alla frustrazione alziamo la voce o siamo sgarbati
  • Se deleghiamo la cura anche per poco tempo
  • Se decidiamo di andare in vacanza
  • Se scegliamo di optare per una residenza sanitaria assistenziale e così via…

Nel profondo del nostro cuore sentiamola colpa, quasi mai dichiarata, di essere vivi e in salute.

Ma questo senso di colpa è del tutto negativo? 

Facciamoun passo indietro…

 

Una reazione comune di ogni essere umano in un legame d’amore è quello di “amare in modo cieco”.

Bert Hellinger, teorico delle costellazioni familiari, sostiene che i componenti di una famiglia desiderano ardentemente appartenere al sistema anche a costo di sacrificare la propria vita.

Capita spessissimo che un membro della figlia prenda sulle sue spalle il destino di un altro componente meno fortunato. Questo amore detto “cieco” lede alla propria vita e a quella dell’altro.

Nel caregiving, a mio avviso, succede una cosa analoga. Facciamo un esempio.

Se un genitore si ammala il figlio può decidere di prendersi cura totalmente rinunciando a tutti gli aspetti piacevoli della propria vita. L’idea di fondo è: “lui sta male e io sto male con lui. Non ho il diritto di godermi la vita mentre lui sta male”.

Si trascura così il proprio lavoro, la propria salute, la nuova famiglia e i propri figli. Ci si sente in colpa per ogni minimo momento di aria o di défaillance che ci allontana da questo “sacrificarsi”.

È come se non si volesse riconoscere alla persona che si è ammalata il suo destino e ci si ostina a volerselo prendere sulle spalle.

Questo sacrificio però è del tutto inutile. Per tre motivi:

  1. Per quanti siano i sacrifici profusi la malattia farà il suo corso naturale: negare questo dato di fatto ci porterà solo ad accanirci e a soffrire di più.
  2. Distruggeremo la qualità della nostra vita negli anni della malattia. Questi anni non torneranno e li abbiamo letteralmente “sacrificati”, persi.
  3. Non riconosciamo alla persona che amiamo la sua dignità nell’andare incontro al proprio destino.

Questo ultimo punto è fondamentale perché sempre più spesso vedo caregivers accanirsi su delle cose che servono più a loro, più a questa illusione di fare di tutto, che alla persona con la malattia.

Mi vengono in mente quei caregivers che si ostinano a correggere la persona malata quando fa errori: mortificandola, oppure continuano a sgridarla o a richiedergli di fare cose per lei impossibili ormai.

O che si accaniscono a farla mangiare nonostante una severa disfagia, quando è ovvio che è il momento di lasciarla andare.

Sono convinta che mantenere il più possibile l’autonomia durante la malattia è il pilastro fondante di un buon caregiving nell’ambito delle demenze.

Ma la distinzione tra aiutare una persona a mantenere l’autonomia e pretendere che l’altro si “tenga su” anche quando non ce la fa più andrebbe tracciata nettamente.

Questo modo cieco di amare ha una voce, dice: “farò di tutto, non ti lascerò andare, dove vai tu vengo io, se non sei felice tu, non posso esserlo io, ti terrò in piedi a tutti i costi”.

Il prezzo da pagare è altissimo e tante sono le persone coinvolte.

Un amore adulto riconoscerebbe all’altro l’andare verso il suo naturale “decadimento”. Accetterebbe con dolore le fasi della malattia lasciando andare di volta in volta dei pezzetti dell’altro. Questo amore adulto permetterebbe di vedere la persona che accudiamo per quella che è, gli riconoscerebbe la sua dignità nelle diverse fasi della malattia, permettendoci di stargli vicino senza volere a tutti costi cambiare le cose.

L’amore adulto permetterebbe di “vedere” che l’altro ha il suo destino e che noi non lo possiamo né impedire né prendere sulle nostre spalle.

L’amore adulto presuppone che ognuno di noi è “solo”: degli individui con una propria vita e un proprio destino. Ognuno di noi deve assumersi le responsabilità della propria vita.

Questo è un passaggio che ci fa nascere sempre in noi un senso di colpa perché ci si separa in parte dall’altro e lo si lascia solo.

Cosa possiamo fare, quindi, quando sentiamo il senso di colpa?

  1. Sopportarlo e onorarlo. Vuol dire che stiamo sulla strada giusta e che stiamo facendo del nostro meglio per riconoscere a noi stessi e all’altro la dignità del proprio destino.
  2. Pensare che nessuno di noi vorrebbe vedere una persona che amiamo, schiacciata dall’accudimento e smettere letteralmente di vivere per noi.
  3. Ricordarsi che un amore cieco rende l’accudimento solo più doloroso e faticoso. Non aiuta l’altro e non lo rispetta.

 

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